Vita e opere di Don Paolo de Töth

(Estratto da Adveniat Regnum, Rivista di Studi Cattolici, anno III, nn. 4-5, autunno 1965 – inverno 1966, pp. 87-93)

di Alberto Maria Fortuna

Il barone Paolo de Töth nacque a Udine il 7 marzo 1881, da Francesco e da Eleonora Vanini. È morto il 25 dicembre 1965 a Maiano, dove era parroco dal 1930.

“L’Osservatore Toscano” ha così scritto di Lui e della sua opera: “Avventurosissima è stata la vita di questo prete geniale e bizzarro, fiero e indomito, duro e polemico e, al tempo stesso, semplice e affettuoso come un bambino. Discendeva da una nobile famiglia ungherese, che era stata espulsa dalla patria nella rivoluzione del 1840. (…) Perse, in tenerissima età, i genitori. Giovanetto, lo ritroviamo fra i Carmelitani Scalzi, presso i quali compì i suoi studi e raggiunse il sacerdozio: però non vi rimase. Poco dopo aver cantato messa, uscì dall’Ordine e si trasferì a Firenze, e precisamente nella nostra Diocesi, in qualità di giornalista cattolico”.

Questo è quanto racconta il giornale toscano nel suo necrologio, a proposito dei primi anni. Ma poiché il suddetto periodico dimostra, per gli anni che seguono, una conoscenza molto approssimativa del de Töth e, nell’articolo sono aggiunti errore ad errori, è da credersi che le informazioni siano da prendersi con le molle.

Le notizie che seguono sono desunte, invece, dagli atti pubblicati della causa di Beatificazione di Pio X (“Romana beatificationis et canonizationis Servi Dei Pii Papae X”- Positio super virtutibus- Typis Pol. Vaticanis. 1949, pp. 176 e sgg), dal mio diario personale, da un articolo scritto da me e corretto dal de Töth (che è inedito), da articoli e libri del valoroso sacerdote scomparso.

Chi fu, dunque il de Töth? Di carattere forte, irruento, tagliente, con un quadro esatto del mondo e dei suoi mali cronici, fu ritenuto dai più un brutto tipo di forcaiolo scapestrato, litigioso e senza rispetto per nessuno; una autentica pecora nera che poteva sviare e turbare pericolosamente il gregge degli agnelli. Giudizio falso dalle basi, perché le sue lotte furono sempre quelle della Chiesa – alle cui direttive si attenne con il più estremo scrupolo e da cui ebbe altissimi riconoscimenti – e puntarono ad un solo fine: la verità cattolica, la fede vissuta e un’incondizionata sottomissione al comando del Papa.

Fu naturalmente un giornalista; e giornalista polemico. Fu anche storico di notevole importanza, sopratutto per le vicende dei cattolici nel risorgimento italiano e negli anni che videro la nascità e l’evolversi dell’Azione Cattolica. Fu anche professore di filosofia nel Seminario vescovile di Fiesole. Infine, fu erudito finissimo ed ha lasciato scritti fondamentali su alcune figure importanti della Chiesa, nei secoli passati.

Conobbe Pio X, quando questi era ancora patriarca di Venezia, nel 1898, a Treviso, dove il presule teneva un discorso sulla gloria dei Santi. Nove anni dopo, nel 1907, – il de Töth dirigeva la rivista teologica “Le armonie della Fede”, molto ben vista dal Papa e dove si agitava la bandiera del principiis obsta – Pio X lo chiamò a Roma e, comunicatogli che si voleva sopprimere L’Unità Cattolica, quotidiano fiorentino, e che ciò sarebbe stato un male, perché si trattava di “stampa a servizio della verità”, lo incaricò della direzione del giornale. Fu, quello, l’inizio di una collaborazione – anzi di una subordinazione diretta al Papa – che doveva portare alla condanna solenne del Modernismo. Il de Töth si recava spessissimo a Roma a prendere “ordini e indirizzi dalla bocca stessa del Santo Padre, per condurre quella campagna antimodernista, alla quale egli tanto teneva, per l’integrità della fede”. In questa lotta, come risulta dagli atti della Beatificazione di Pio X, non fu “lesa la carità e la giustizia”.

L’Unità Cattolica era decisamente combattuta dal Card. Maffi, di Pisa; da mons. Mistrangelo, di Firenze e, più ancora, da Card. Ferrari, di Milano. “Eppure io – dice il de Töth – prendevo istruzioni direttamente dal Papa, e fedelmente le eseguivo, sacrificando perfino idee personali. Una volta il Papa mi ordinò di trattenermi in Roma, in attesa del Card. Maffi, che aveva chiamato telegraficamente, ma inutilmente, per ben tre volte. Egli poi venne e ci furono delle spiegazioni, in seguito alle quali mi abbracciò e (il Maffi) mi chiamò salvatore dell’episcopato toscano. Ma il suo atteggiamento proseguì, sicchè io fui costretto un giorno, nell’episcopato di Firenze, a risentirmi fortemente ed a mettere in chiaro che io agivo e scrivevo secondo le istruzioni impartitemi dal Papa”.

Come direttore delle Armonie della Fede – dove sosteneva le stesse idee – ebbe, in quell’anno 1907, un grave incidente con il card. Giacomo della Chiesa, poi papa Benedetto XV, allora arcivescovo di Bologna. Erano amici di famiglia e avevano grande dimestichezza. Una sera d’inverno, passando da Bologna, tra un treno e l’altro pensò di andare a trovare l’Arcivescovo, che lo ricevette subito. Questi proteggeva il giornale modernista L’Avvenire d’Italia e. dato che il de Töth era, di quello. uno degli avversari più accaniti, cominciò una discussione, che degenerò in alterco. Tra l’altro il pugnace sacerdote scomparso consigliò il canrdinale di dichiarare pubblicamente di non aver nulla a che fare con quel giornale, se voleva non essere attaccato da lui. Finita la discussione, (meglio troncare) il Töth partì, sbagliò treno, arrivò a Verona e corse subito a confessarsi, dicendosi disposto ad abbandonare la direzione delle Armonie — causa immediata della discussione — se il confessore lo ritenesse giusto. Ma fu consigliato a seguire la via della verità. Da Verona andò a Milano, dove aveva amici antimodernisti. Tornato a Firenze, scrisse in termini di verità al card. della Chiesa e ne mandò copia al Papa. Poi partì per Roma. Quando si presentò a Pio X e, come al solito, si inginocchiò, il Pontefice fece le viste di non vederlo e lo tenne così per un quarto d’ora. Poi lo fece rialzare, dicendo: “Certe cose, pur verissime, non si dovevano scrivere”. E mostrandogli il cestino. aggiunse: “Vede è pieno di lettere contro di lei”.

La collalborazie col Papa era strettissima . Il Santo Padre leggeva attentamente tutti i giornali e più volte “richiamò la mia attenzione su articoli di certa stampa, nei quali il suo acume vedeva diluito abilmente il veleno modernista”. Una volta, appena arrivato a Roma, si presentò da Pio X. « Ha letto il Messaggero?, gli domandò il papa di colpo, appena lo vide. “No, Santità. Sono arrivato in questo istante”. “Bene. Lo legga e dimani mattina deve apparire la risposta sull’Unità Cattolica”. Erano circa le otto di sera. L’articolo fu scritto immediatamente, con affanno, e portato di corsa alla stazione. Arrivò, il pezzo, alle quattro a Firenze. Alle sei usciva.

Un’altra volta che il Papa leggeva un opuscolo francese – dove si commentava la Pascendi – gli capitò di sbagliare la pronuncia. Il de Töth, istintivamente, strinse le spalle. Il papa se ne accorse. Finì il periodo e poi, sorridendo, lo guardò e gli disse in veneto « Caro professore, voi grandi dotti vi credete di sapere ogni cosa perché conoscete un po’ di francese e quattro parole di tedesco. Ma per governare la Chiesa mi basta il mio latino ». E per ricordo del rimprovero, gli regalò l’opuscolo, non senza prima averlo condannato a scriverci sopra otto articoli sull’Unità Cattolica, cosa che fu fatta con grande scrupolo.

Questa è, semplicemente, la genesi di quei “ferocissimi attacchi contro i modernisti” che gli si rimproverano. Attacchi non di don Paolo, che ben li avrebbe fatti, ma di san Pio X; e perciò giustissimi. Questa la genesi della lotta “contro chiunque non condividesse il suo integralismo”: dove è facile vedere che l’integralismo era, sì, suo, ma anche del Pontefice e della Chiesa. Questa la genesi delle “imbeccate” del Papa; imbeccate che rinfacciate a lui morto, gli fanno onore, perchè il motto del papa era “instaurare omnia in Christo”.

Terminata la prima guerra mondiale e cessate le pubblicazioni delle Armonie della Fede, prima da solo, poi con altri collaboratori ben scelti – fra i quali Filippo Sassoli de’ Bianchi, Tito Casini, Piero Bargellini,Nicola Lisi, Aldo Fortuna – si impegnò in una lotta dura contro il cattolicesimo democratico aconfessionale di don Sturzo e dei popolari. Nacque, così, sotto la bandiera dell’integralismo cattolico. Il settimanale Fede e Ragione. Era il 1919. La direzione fu posta a Fiesole; la tipografia nel Lazio, ad Acquapendente. Ne seguì un decennio di battaglie giornalistiche che parvero – agli infiniti avversarii – battaglie sterili e personali, ma che rappresentarono forse il periodo più glorioso del de Töth che, malvisto nello stesso Vaticano, si scagliava – testi pontifici alla mano – contro chiunque si permettesse di usare in senso strumentalistico la parola della Chiesa. Con l’affermarsi del fascismo, lo scopo mutò radicalmente e divennequello di portare il governo alla conciliazione, oltre all’altro di fare intendere a Mussolini quali fossero i suoi doveri verso la cattolica Italia.

Da qui, una critica spietata, ma costruttiva, perchè condusse all’elaborazione di leggi – nel campo civile e penale – che avevano i fondamenti nelle sociologia cattolica, riuscendo a debellare molti presupposti di caratteri positivstico sperimentale e mitigando l’elemento liberale e nazionalista che si agitava in seno alla classe dirigente fascista.

Da qui, inconvenienti politici di ogni genere: dall’avversione dei fascisti a quella di tutti i popolari, all’altra del clero transigente. Vi furono minacce di sequestri ad ogni numero, ma il periodico riuscì sempre ad uscire, perchè prima la distanza di centinaia di chilometri fra redazione e tipografia metteva in burocratico imbarazzo che aveva l’ordine di impedire la diffusione del foglio, poi perchè Mussolini stesso ordinò che lo si lasciasse vivere. (“Guai a chi tocca il professor!”, disse all’allibito prefetto Regard che aveva proposto per il confino don Paolo e i suoi collaboratori. Mussolini volle che il foglio sopravvivesse perchè non poteva aver rilievo nazionale data la sua scarsa tiratura, mentre aveva in esso – lui ne era attentissimo lettore – lo specchio fedele e disinteressato del pensiero cattolico nei suoi riguardi. Certo è che nessun cattolico ha detto, in patria e col pericolo continuo di andare in galera, il fatto suo a Mussolini così duramente e per tanto tempo.

Raggiunta la conciliazione, cessò lo scopo sostanziale dell’esistenza di Fede e Ragione ed il giornale fu soppresso dal suo stesso direttore, nel 1929, senza alcuna pressione né politica, né ecclesiastica. Fu un foglio importante e ricchissimo, sì che la sua lettura è, anche oggi, estremamente interessante se non addirittura piacevole, per il ritmo delle polemiche. Fu un foglio che ebbe moltissimi ed eccezionali riconoscimenti da parte delle alte gerarchie ecclesiastiche. Ciò nonostante, cessate le pubblicazioni, per impedirgli altre lotte, don Paolo si vide relegato nella parrocchia di Maiano, dove, ai margini della vita giornalistica ed attiva, resterà come parroco fino alla morte.

Da questi fatti, dove risulta chiaramente come il nobile e combattivo sacerdote avesse, come obbiettivo delle sue battaglie, non l’individuo ma i principii, arrivare a concludere – come si è fatto post mortem – che Fede e Ragione fu “un’altra piazzola donde sparare a zero un po’ contro tutto e contro tutti, a specialmente contro Ernesto Calligari”, che fu l’infelice “Mikros” di un giornale fiorentino ed uno dei capri espiatori, quale rappresentante del nuovo cattolicesimo aconfessionale di don Sturzo, della forte invettiva di don Paolo, è un po’ grossa. Il “Mikros” ebbe la disgrazia di rappresentare una delle tante, deleterie, correnti che pretendevano di intendere a modo loro i chiarissimi dettami dei pontefici in materia sociologica. Nient’altro. Voler abbassare Fede e Ragione, foglio tutto teso verso i principii fondamentali della fede, ad una piazzola di tiro è semplicemente ridicolo, né si addice alla personalità di don Paolo, tutt’altro che esibizionista e volto ad altri ideali che non a quelli di tormentare il mediocrissimo giornalista. Una sfida da lanciare ai successori di questa tormentatissima generazione cattolica, sarebbe senz’altro quella di trovare, in tutti gli scritti di don Paolo – che sono un pelago vastissimo ed inesplorato – una sola frase – che sia contraria all’insegnamento della Chiesa e dei Pontefici. A tal proposito – si parla della dirittura di don Paolo – sarà bene ricordare un episodio chiarificatore. Una volta don Paolo trovò, alla Camera, un suo nemico. Due avversari di fronte. Uno dei due, addirittura di ritorno da un esilio doloroso ed umiliante, di carattere politico. Parlo di don Sturzo, il quale, appena vide l’antico suo implacabile censore – era il dopoguerra, poco prima della morte del fondatore del Partito Popolare – gli buttò le braccia al collo. “Aveva ragione lei! Vede – gli disse – questi democristiani del Senato mi applaudono in seduta e mi si rivoltano fuori”. E soggiunse di riconoscere d’aver avuto torto, nelle polemiche dottrinali e politiche con Fede e Ragione, sì che don Paolo si trovò davanti non il suo antico contendente, ma un cattolico più integralista degli integralisti del decennio 1919-1929. Povero don Paolo! Di lui, morto, fu detto dai cattolici di Fiesole, che aveva “poca fede e meno ragione”. Sulla sostanza della sua fede giudica ormai Dio; ma chi l’ha avvicinato e conosciuto può testimoniare che fu davvero eroica ed esercitata, giorno per giorno, da continue amarezze. Sulla sua ragione – che non era sua, ma della Chiesa – giudicherà la storia; ma chi l’ha conosciuto sa che era, purtroppo, sempre nel giusto.

Gli ultimi anni di don Paolo si volsero in un tramonto crepuscolare, fra i cipressi e gli olivi di Maiano. Lavorava sodo alla sua grande storia su Medolago Albani e l’Azione Cattolica, raccogliendo migliaia di documenti. Lavorò su una biografia, inedita, del grande Margotti, che era un altro integralista di cent’anni avanti. Era superficialmente giudicato da certi preti, che parlavano di lui con sufficienza, per sentito dire e ne facevano una macchietta, ricca di episodi più o meno divertenti. Aveva assolto, oramai, alla sua funzione naturale di can mastino al cancello della Chiesa; ma nell’intimità agitava ancora progetti, portati sulla soglia del varo, sì che sarebbe bastata una minima spinta per metterli in atto, di giornali di principii cattolici ed integralisti, che non avrebbero certo nociuto ad un buon orientamento della gioventù. Quest’uomo che, in tempo di trionfante dittatura, ebbe il coraggio di mettere alla porta l’inviato personale del Preziosi, ispettore per la demografia e per la razza, e meglio conosciuto come l’animatore della campagna anti-ebraica italiana; quest’uomo che riscuoteva ancora grandissimo credito in molti ambienti cattolici, ebbe un tramonto fervido di progetti e ricco di ricordi. Il suo parlare era incisivo, tagliente, vivo di spirito e di benevole risate. Si sentiva in lui la persona ricchissima di quell’umanità che tanto difficile trovare. Rideva, quando gli si diceva che ormai non era che una cariatide, immobile, messa per spaventare i passanti. Nel clero della diocesi di Firenze e di Fiesole aveva già il privilegio di una leggenda. Quando è morto, la folla, non riuscendo ad entrare nella sua chiesa di Maiano, aveva occupato anche il sagrato: cosa strana e non giustificata che da un prestigio non comune, perché i convenuti non erano solo i contadini ed i parrocchiani delle cave, ma facevano parte della più scelta élite intellettuale italiana. Quando stava per morire, il vescovo di Fiesole non si fece vivo; venne però il cardinale arcivescovo di Firenze, Monsignor Florit: due modi d’intendere la storia. La storia di don Paolo è talmente complessa e vasta che non può essere assolutamente riassunta in queste note affrettate. Fu al centro di polemiche infuocatissime di ogni genere e fino a pochi giorni avanti la morte. Si occupò sempre della vita italiana, perché, pur ungherese d’origine, si sentì italianissimo ed ha sempre amato oltremodo la nostra storia e si sentì legato alle nostre vicissitudini. Lavorò sempre senza esibizioni, ed è per questo che molti non lo conoscevano. Ma la sua influenza mitigatrice – proprio così: mitigatrice! – in problemi sociali di generale interesse rimane un monumento che non si può negare né sminuire. Molto di più avrebbe potuto essere usato al servizio della Chiesa, ma si ebbe paura di una forma polemica; e ciò fu un torto. La sua opera letteraria è vastissima. Oltre agli innumerevoli articolo su Le Armonie della Fede, sull’Unità Cattolica, su Fede e Ragione, si ricordano, fra i più importanti: I padri ministri degli infermi o “del ben morire”. Note cronistoriche camilline. Firenze 1914. – San Giovanni della Croce: opere spirituali. Acquapendente, 1927. – Vita e virtù del P. Martino d’Andres Perez de’ chierici regolari ministri degli infermi. Acquapendente, 1928. – Errori e pericoli dello scotismo. Firenze, 1932 (opera che ha suscitato e suscita polemiche che hanno dell’incredibile). – Il beato cardinale Nicolò Albergati e i suoi tempi. Acquapendente, 1934, (opera fondamentale e ricercatissima). La certosa di Londra e i suoi martiri nella persecuzione di Enrico VIII. Acquapendente, 1936. – Filippo Sassoli de’ Bianchi. Firenze, 1958. – È noto, poi, per un’infinità di altre opere, fra le quali l’edizione del codice di Berengario. Ha lasciato, inedite, due opere: la prima sulla vita di don Margotti; la seconda, incompiuta e vastissima, sul conte Medolago Albani e l’Azione Cattolica Italiana. Queste due opere dovrebbero veder la luce negli anni a venire.