I Poveri pazzi di “Fede e Ragione”

(Estratto da Il gionale di bordo, anno II nn 3-4, Dic 68 – gen 69)

Alberto M. Fortuna

L’articoletto fu sottoposto a don Paolo de Töth, che l’approvò (sia pure in un testo un po’ diverso), nel 1958.
Doveva uscire su di una nuova rivista cattolica, Pincìpi, che in lui aveva l’ispiratore ma che non vide la luce.
A distanza di anni resta senza dubbio attuale. Attuale, almeno, la necessità di un ritorno a quella fedeltà ai principi direttamente, richiamta dalla figura del de Töth.
Soltanto due accenni, per altro inevitabili, in un paio di note del volume di don Paolo de Töth su Filippo Sassoli de’ Bianchi (Firenze, maggio 1958), ricordano quei poveri pazzi che seguirono il magistero dei Papi e di San Tommaso d’Aquino, raccolti intorno al foglio settimanale fiesolano “Fede e Ragione”, mantenendo per dieci anni, dal 1919 al 1929, il più aggressivo ed imperativo degli atteggiamenti possibili tanto da meritare dagli avversari la definizione di integralisti e intransigenti cattolici.
Troppo poco, due parole, per l’importanza del manipolo coraggioso; pochissimo, per l’attualità dei problemi trattati da quei venticinque utopisti: fra i quali il più importante quello dell’atteggiamento della Chiesa nei confronti del partito popolare, e di questo nei riguardi di quella, ribadito non troppo tempo fa dalle “precisazioni” del cardinale Ottaviani.
Il gruppo, detto “sinedrio” dagli avversari che non risparmiarono le ingiurie, era guidato da uno di quei rari uomini che al senso della verità aggiungono una fede forte insieme ad una grande preparazione filosofica e storica: il veneto don Paolo de Töth (1881-1965), professore di filosofia, già direttore de l’”Unione Cattolica”, dottissimo storico, discepolo primo del Margotti e molto amato e stimato da Pio X.
Il de Töth, determinato a seguire le direttive antimoderniste di quel pontefice, una volta cessate le pubblicazioni delle “Armonie della Fede”, sotto la bandiera del “Principiis obsta”, si buttò nella battaglia a viso aperto, dapprima quasi da solo, poi seguito da pochi collaboratori ben scelti, fra i quali il Sassoli e Tito Casini, non avendo con sé che la dottrina cristiana e la certezza di seguire la strada della verità. Di carattere forte, irruento, tagliente, con un quadro esatto del mondo e dei suoi mali cronici, fu ritenuto dai più un brutto tipo di forcaiolo scapestrato, litigioso e senza rispetto per nessuno; un’autentica pecora nera, che poteva turbare e sviare pericolosamente un gregge di agnelle. Giudizio falso dalle basi, perché le sue lotte, che furon sempre quelle della Chiesa alle cui direttive si attenne con il più estremo scrupolo e da cui ebbe altissimi riconoscimenti, avevano un solo fine e un solo motore: la verità cattolica, la fede vissuta e un’incondizionata sottomissione al comando del Papa.
I tempi – quel ventennio difficile e controverso che precedette il Concordato – mettevano a dura prova la saldezza delle convinzioni.
La posizione del credente, abituata ad un’annosa e deleteria vigliaccheria pubblica, era critica: tra le lusinghe del liberalismo ed il richiamo dell’umanitarismo socialista, le divisioni si avvertivano profonde ed amare, precisate sempre più dall’entusiasmo progressista di un altro tipo di giovani; quelli che, resi sordi e ciechi dal verbo democratico contro il quale la Chiesa non aveva mai cessato di mettere in guardia, credevano possibile una riforma spirituale cattolica, sì che il problema di coscienza si strumentalizzava ed a tutti i costi i “vecchi” dovevano “adeguarsi alle nuove esigenze” nell’ambito della Chiesa. Questo stato di cose, che fu l’eresia modernista condannata severamente da San Pio X, era uno dei sintomi più gravi dello sbandamento che dal campo cattolico si rifletteva inevitabilmente in quello morale. Appena i cattolici furono liberati da quel senso di preciso e doloroso isolamento che nasceva dal non expedit, dalla maggioranza non si stimò che la formula politica di un partito aconfessionale fosse la peggiore tra le soluzioni possibili: un partito che radunasse per la prima volta le masse cattoliche italiane e che si inserisse nel gioco parlamentare del Regno. L’equivoco democratico del popolarismo – uno dei frutti migliori del liberalismo che ha sempre agitato con successo la bandiera della democrazia – e soprattutto la contraddittoria e assurda pretesa dell’aconfessionalità, non piacquero né punto né poco a quello di “Fede e Ragione”. “Dichiariamo subito – scriveva Filippo Sassoli de’ Bianchi – che noi, abituati alle posizioni chiare e nette, non possiamo prendere parte ad un partito il quale, nell’atto stesso che si presenta in pubblico, ripiega la propria bandiera e sottace il glorioso nome di cattolico”. Non si poteva ammettere quello svisamento della verità, quelle necessarie strette di mano ad avversari irriducibili, con la sola giustificazione di trovare un’arma valida da opporre alla nascente e incognita potenza mussoliniana.
A questo proposito il de Töth, in una nota spietata del suo libro sul Sassoli: “Nessun uomo di governo aveva parlato della Chiesa con il rispetto del Mussolini; nessuno fino allora aveva auspicato la fine del conflitto fra Chiesa e Stato in Italia, a parte tante buone leggi e la Carta del Lavoro, ispirata tutta quanta ai principi della sociologia cattolica (…)
Vero: la superbia offuscò il giudizio a Mussolini fino a spingerlo contro la Chiesa; però non senza mancare di giustizia si potrebbe negare il bene da lui operato, procurandogli fiducia e plauso da altissimi personaggi della Chiesa, che nessuno oserebbe accusare di Fascismo. Come è vero che nessuno ebbe il coraggio del marchese Sassoli nel riprendere a Mussolini la gravissima sciocchezza degli antistorici discorsi pronunciati alla Camera all’indomani del Patti Lateranensi sull’origine del Cristianesimo e della Chiesa”. Una cosa, non aggiunge il De Töth: che l’argumentum primum della polemica contro “Fede e Ragione” era proprio l’accusa di fascismo che i popolari di don Sturzo e dei vari gruppi aderenti gli sbandieravano continuamente sotto il naso. Accusa inutile e falsa. Inutile, perché le direttive del governo erano improntate a rispetto della Chiesa, per cui, con i dovuti limiti, un cattolico poteva ben dirsi fascista. Falsa, perché “Fede e Ragione” non agiva nell’interesse di nessuno. Il foglio del de Töth non era un organo di partito ma un promemoria incalzante e, se si vuole, irritante, per i facili a dimenticare, per i pigri, per coloro che si sottoponevano ad un costante e diuturno compromesso, per i vili, per gli sviati in buona fede e per i settari in malafede: meminisse iuvabit.
Il 1925, per gli storici liberali, fu l’anno fatale della caduta di tutte le illusioni: il fascismo smantellò, praticamente, le ultime parvenze di opposizione alla Camera. Fu il principio della dittatura: l’Aventino crollava sommerso nell’assenteismo suicida. Il discorso del 3 gennaio risultò come il requiem dello Statuto Albertino; le misure di polizia che seguirono subito dopo, severissime, fecero vedere chiaro agli avversari più ostinati, che Mussolini non scherzava. Racconta Turati come il socialista Canepa affermasse, in quell’occasione, con una lungimiranza davvero straordinaria, che la “reazione” avrebbe senz’altro dominato per almeno vent’anni, e che “gli uomini dell’opposizione sarebbero stati inchiodati nell’ignominia della storia”. Nel silenzio pauroso dei popolari, dispersi e scomparsi come la nebbia al sole, e fra una stampa ormai del tutto fascista, solo i poveri pazzi di “Fede e Ragione”, parlarono, dai poggi di Fiesole. E chiaro, sempre. “Giorni foschi e oscuri sono quelli che, nelle ultime tre settimane passate – si legge in una corrispondenza da Roma datata 8 gennaio 1925 – specialmente hanno gravato sul povero nostro paese, che da cinquantaquattro anni si dibatte cercando una via per normalizzarsi e non la trova. L’on. Mussolini, assumendo con gesto coraggioso, tutta la responsabilità del governo… diceva… il 3 corr., che egli volle attendere apposta che le opposizioni portassero la situazione del paese al punto più acuto, onde si vedesse di che panni son vestite. Ma, a parer nostro, fece male. Non si permette, infatti, impunemente, senza pericolo e danno, al delinquente di delinquere e all’assassino di minacciare… Nessuno negherà, può negare, gli errori del Governo fascista, soprattutto nel non essersi liberato a quel tempo di quegli elementi, sui quali ricade la diretta responsabilità di quel delitto Matteotti, che è diventato la bandiera dell’opposizione. E Mussolini… ha pure un’altra colpa: quella di non avere tenuto fede ai principi formulati nell’atto di assumere il Governo, dopo la marcia su Roma…”. E qui il de Töth rimproverava a chiare note al dittatore quella colpa che doveva inevitabilmente portare al 25 luglio: anteporre il Fascio all’Italia, il partito alla nazione. E lo accusava, per questo, di aver smentito e contraddetto se stesso prima affermando “ancora recentemente… ch’egli sarebbe sempre stato l’umile esecutore degli ordini del suo partito”, poi, all’opposto, dichiarando “più d’una volta… che ogni fazione avrebbe dovuto perire il giorno nel quale avesse tentato di sovrapporsi alla Nazione”. Di fatto, però, “il partito viene a imporsi alla Nazione, e non è chi non veda i pericoli che ne possono venire per gli elementi turbolenti che, nei partiti, di solito, arrivano a imporsi”.
Ben più gravi – e che acquistano tutt’altro aspetto per essere state scritte in un periodo di recrudescenza repressiva come si vuole che sia il marzo del 1925 – le “Parole franche all’on. Mussolini a proposito di un volgare insulto al Vaticano” (15 marzo). Durante un banchetto offerto dai direttori de “L’Impero”, Carli e Settimelli, F. T. Marinetti aveva dichiarato: “Vi sono in Italia, pur troppo, forze italiane che osteggiano l’idea imperiale. Combattiamole pure, non dimenticando, però, fra queste, la più segreta e la più anti italiana: il Vaticano”. Il de Töth, indignato, rispondeva all’articolo di fondo con una delle sue mirabili filippiche : “…Una delle due: o il governo comprendendo tutta la indegnità, nella quale è stato coinvolto e trascinato dal Marinetti, separa la sua responsabilità dalla responsabilità di lui, o i cattolici saranno in diritto di giudicare tutta la sua azione – zoppicante, del resto, già, in troppe maniere – (qu’egli fa) per riavvicinarsi alla Chiesa e al Vaticano, siccome una commedia, se non anche peggio…”. E poi: “Il Pontefice è persona sacra, inviolabile e sovrana: il Vaticano, la Religione, la Chiesa sono cose sacre e inviolabili, che nessuno, fosse pure il fondatore del futurismo e del fascismo, fosse pure un Marinetti, deve avere l’ardire di offendere. …Se poterono e se possono, tutti i giorni, venir sequestrati dei giornali per minaccia all’ordine pubblico, mentre, tantissime volte, non si tratta che di polemiche tra partito e partito, o tra partiti e governo, e se a Cremona – salvo errore – poté venir sequestrato un giornale cattolico per la pubblicazione di un commento, tutt’altro che pericoloso, alla Proposizione del Sillabo (il documento tanto esaltato, in tempo non lontano, dalla stampa fascista sedicentesi antidemocratica e antirivoluzionaria) condannante i delitti politici, ma solo perché non corrispondente al genio dell’on. Farinacci, a buon conto devono venir sequestrati e diffidati quei giornali, come “L’Impero”, i quali non dubitano, ad ogni tratto, di stampare oscenità e calunnie all’indirizzo della prima forza e potenza morale d’Italia e del mondo: il Vaticano…”.E il fascismo, come reagiva a questi violentissimi attacchi? Il de Töth aveva avuto l’accortezza, per parare più facilmente i colpi che ogni giorno arrivavano innumerevoli da ogni parte, e per guadagnar tempo prezioso, di distribuire fra Acquapendente e Fiesole la gestione del settimanale: nel Lazio, la tipografia; in Toscana, la direzione e l’amministrazione. Cosicché quando il Prefetto di Firenze era seriamente intenzionato a sequestrare il giornale, doveva rivolgersi a quello di Roma, il quale, a sua volta, rispediva la pratica sull’Arno per “non pertinenza”: intanto era passato il momento giusto e il provvedimento cadeva per il mancato tempismo necessario a bloccare la diffusione di “Fede e Ragione”. è certo, però, che sarebbe stato facilissimo sistemare la questione in quattro balletti, se fosse intervenuto direttamente Mussolini. Eran continui richiami, continue minacce tutt’altro che larvate, continue ingiurie dei federali, dei fascisti, del questore fiorentino. E dato che le sue parole erano sempre troppo chiare, e la lotta apertissima, si arrivò al momento inevitabile in cui il fascicolo degli appartenenti al gruppo fiesolano approdò al tavolo del duce, fra quelli dei “confinandi”. Ma Mussolini rispose all’allibito prefetto Regard: “Guai a chi tocca il prof. De Töth”. E non fu toccato, fra il dispetto di tutti. Perché questa protezione del tutto gratuita? Il de Töth non aveva mai avuto rispetto per nessuno, in nome della verità. E nemmeno per Mussolini, più esposto degli altri alla critica fiesolana. Si vuol credere che proprio per la necessità di avere una parola spassionata, non legata ad interessi contingenti di partito, ma limpida di per se stessa, e costruttiva; e una critica accessibile solo agli aderenti di “Fede e Ragione”, che non erano molti per la modestia del settimanale, il quale in definitiva, diveniva più una utile direttiva d’azione che non una demolizione politica, il periodico fu risparmiato.
“Fede e Ragione” cessò le pubblicazioni nel 1929, e non per interventi politici; l’accordo fra Stato e Chiesa era stato concluso e la meta dei cattolici, raggiunta. I poveri pazzi di “Fede e Ragione” avevano visto più lontano dei loro avversari più ostinati della fazione popolare.
Troppo lungo sarebbe, ora, rifare la strada percorsa dagli uomini di “Fede e Ragione”, la cui storia, come scriveva troppo brevemente il de Töth, “potrebbe da sé dare materia per un grosso volume”. Ogni sua pagina è un atto di accusa, di rivolta ideale al servilismo “collaborazionista” della gran corrente pubblica, ed un esempio di integrità morale. “Per grazia di Dio – si legge nel numero del 4 gennaio 1925 – i cattolici che non hanno piegato e che non intendono piegare davanti a nessun idolo; che stanno attaccati alla Chiesa e vogliono difendere i diritti sacrosanti; e che non si vergognano di passare per intransigenti e codini, superano di parecchio quei famosi “venticinque” , ai quali per dileggio, si dice che si trovin ridotti. Ma poi, forse che la verità ha bisogno di grandi eserciti per vincere? No! Perché la verità la sua forza, quella forza e potenza che la fa trionfare, l’ha in se stessa, non nel numero, come erroneamente da molti si crede”.